Blog indipendente di critica sugli artifizi semantici del regime. Fino a che significherà qualcosa, l’autore invoca la protezione dell’art. 21 della Costituzione Italiana.
Quanto può portare lontano mettersi a pensare da un bar di provincia su questioni riguardo alle quali non si ha nessun titolo se non quello di volerci pensare un po’ meglio per qualche minuto?
Come ho scritto anche in A seguire i soldi sono buoni tutti – e ho imparato nel modo più amaro possibile durante la “pandeminchia” – loro vorrebbero che deponessimo la nostra capacità critica di pensiero in favore di una ragionevole ignoranza in qualsivoglia campo di sapere e competenza, in modo da delegittimare il buon senso e instaurare un pregiudizio di incompetenza morale mascherato da tecnico. È lo strumento psicologico più malvagio e potente della propaganda e alberga in quelle espressioni con cui ci hanno preso per il culo durante la pandeminchia: “non sei un dottore quindi non puoi capire”, “non hai titoli e competenze per ribattere a un tecnico”, “conta solo il parere degli esperti o della comunità scientifica”, ecc ecc.
E quindi eccomi di nuovo qui, più di tre anni dopo, a predicare che il buon senso dell’uomo della strada non solo era affidabile bensì anche la difesa più potente contro la propaganda. Allora oggi mi va di tornare nel bar dove La verità è un caffè sospeso e sopra a un amaro ragionare di economia con uno qualsiasi degli altri astanti. Il primo passo è cambiare la prospettiva e adottare uno sguardo diverso sulle cose: lo chiamo “sguardo dell’etnografo”, cioè un approccio improntato alla massima neutralità e imparzialità, senza pregiudizi culturali e morali, come se non apparteneste al consesso umano. Vonnegut, da par suo, lo descriveva come lo sguardo di un alieno che debba compilare un rapporto esplorativo sulla Terra.
COS’È IL DENARO, O MEGLIO, A CHI APPARTIENE?
Questo pezzo di carta che ho tra le mani lo scambierò con l’amaro che sto bevendo, come un baratto tra merci e prodotti o… servizi. Il denaro mi sembra proprio questo: un servizio di facilitazione degli scambi tra soggetti tramite un’equiparazione simbolica di valore. Cioè si stabilisce che questo amaro valga 3 euro e così qualcuno rende possibile a me godere dei prodotti e servizi di questo barista anche se a lui non serve un sito web o un logo. Fantastico, perfetto. Ma…
Chi produce il denaro, chi fornisce il servizio che noi chiamiamo “denaro” e soprattutto quanto mi e ci costa? Perché ho il sospetto che sembri gratis ma non lo sia veramente, così come è stato per il vaccino, ad esempio.
Be’, basta posare un attimo la Gazzetta e guardare l’etichetta sul denaro e scoprire subito che viene prodotto (cioè stampato) dalla Banca Centrale Europea: il denaro appartiene all’Unione Europea. Proseguo su questa linea di ragionamento (non prima di aver ordinato un altro amaro) e deduco che se qui in questo bar italiano sto utilizzando un servizio della BCE, qualcuno qui in Italia deve avere già pagato o star pagando per questo servizio.
La domanda seguente che mi faccio è: se come sembra l’Italia ha acquistato il denaro che sto usando in questo momento dalla BCE, quanto e come l’ha pagato? L’ha avuto a buon prezzo? E poi, soprattutto, CON COSA L’HA PAGATO se qui in Italia usiamo lo stesso denaro per tutti i pagamenti?
Un suggerimento, fate come me e passate a una grappa perché non vi piacerà per niente continuare questa chiacchierata. Non vi piacerà perché la domanda che ora rivolgo a me stesso è: se tra noi italiani paghiamo i prodotti e servizi che ci scambiamo con il denaro che l’Italia compra per noi dall’Europa: allora con che cosa l’Italia paga il denaro che compra dall’Europa? Per quel che posso capire da questo bar di Cesenatico, l’Italia salda il suo debito verso l’Europa per l’acquisto di denaro con… il denaro che ha preso a debito: paghiamo indebitandoci.
A questo punto dovreste avere la pelle d’oca come me perché quello che vedo è un sistema economico chiamato Italia in cui ci si affanna a scambiarsi in volume sempre maggiore un titolo di debito chiamato denaro con lo scopo di cancellare il debito per la richiesta di ulteriore denaro. Ognuno di noi compra per sé, guadagnandoselo con il proprio lavoro, del denaro che serve solo ad acquistarne altro. È come la ruota del criceto, il sasso di Sisifo, il labirinto del Minotauro, è una gabbia con l’unica funzione di tenere l’ignaro ospite assoggettato a un debito, schiacciato dalla colpa per qualcosa di cui non sa nemmeno di essere responsabile. È come il peccato originale.
PER CHI LAVORIAMO, O MEGLIO, PERCHÉ?
Un po’ di prevenzione igienica e dialettica prima di iniziare il discorso: il lavoro nobilita, permette alle persone di realizzarsi, a molti piace lavorare e molti altri non saprebbero cosa fare se non lavorassero, il venerdì è sempre gioia e il posto fisso un sogno, perfino la nostra stessa Costituzione dice che tutto il Paese si fonda sul lavoro.
Bene, fate un passo indietro e resettate: sono tutte cazzate , è il marketing del sistema che affonda i denti nei vostri cervelli da decenni. Ok? Posso parlare seriamente ora?
Lavoriamo per i soldi. Per pagare i conti e consumare prodotti e merci. L’attività che occupa in modo sproporzionato la maggior parte del nostro tempo serve a procurarci denaro – che dal paragrafo precedente sappiamo essere un servizio che costa molto caro alla collettività – e poi spenderlo o risparmiarlo o investirlo per assicurarci di continuare ad averne una quantità rassicurante e un approvvigionamento affidabile. Ma allora come si spiegano queste due cose?
Lusso e spreco. Se il sistema del denaro per lavoro è stato messo a punto per distribuire nel modo migliore le risorse, perché ci sono sia lussi che sprechi? Se il lavoro è il modo delle società per dare a chiunque la possibilità di procurarsi sostentamento, perché invece di portare uguaglianza economica nella società, magari su un livello medio di benessere, aumenta invece le disuguaglianze e crea ricchi sempre più ricchi e nuovi poveri?
Cos’è il vero movente per il lavoro, per ciascuno di noi? Io una risposta, credo onesta, me la sono data: lavoro per paura di diventare povero, semplice. E mi racconto le balle sul lavoro nobilitante per fare lo gnorri su quella che dovrebbe essere la vera verità del lavoro: cioè che si dovrebbe lavorare perché nessuno sia povero.
Mi pare cioè che quello che ci spacciano per uno strumento di uguaglianza sociale e promozione di libertà sia diventato uno strumento di oppressione e schiavitù che amplifica le disuguaglianze sociali invece di ridurle. Quindi, se il lavoro NON È uno strumento per permettere alla gente di provvedere a se stessa e alla propria sopravvivenza: che cos’è?
È un dispositivo di distrazione e asservimento, una gigantesca carota che ci fanno ondeggiare davanti al naso per non farci accorgere di chi ha il bastone in mano. E bastone e carota, a parlare forbito, sono proprio un sistema di creazione di un equilibrio artificiale per controllare il comportamento di un animale. Tasse, costo della vita, consumi da una parte, stipendi, salari, introiti vari. Entrate e uscite, bilanci personali e collettivi, microeconomici e macroeconomici: tutto è interconnesso, comunicante come i proverbiali vasi, e il senso ultimo è mantenere gli animali nella necessità di continuare a trottare, senza poter finalmente mordere la carota e senza costringere il padrone alla violenza del bastone.
Mi dispiace, ma questo siamo.
Se non siete d’accordo tornate pure all’inizio di questa sezione e scegliete una delle bugie a caso. Non fa nessuna differenza.
IL DEBITO PUBBLICO E LA NOTTE DELLE VACCHE NERE
Fermatevi un attimo a pensarci. Italia: un territorio di 300.000 km² in mezzo al Mar Mediterraneo. 60 milioni di persone che ci vivono sopra. Politicamente poi, è quella che è da meno di un secolo. Nei 4000 anni precedenti è stata di tutto, da colonia a terra di conquista, da vuota espressione geografica a enorme impero. Ok, ci siete? E ora chiedetevi, proprio ora, il debito pubblico? Ma che senso ha? Ma chi è in debito? E verso di chi? Uno tra voi 60 milioni ha contratto un debito a nome degli altri? E ma… direte, l’ha contratto lo Stato Italiano! Ok, ma per che cosa? Di cosa diavolo possiamo essere debitori come Paese con risorse come le nostre e con 60 milioni di persone che ci vivono e lavorano, e pagano le tasse? Davvero, cosa può essere che non riusciamo a restituire e metterci in pari? Nulla di questo mondo può valere tanto da costituire un debito che non riusciamo a ripagare, anno dopo anno, da 70 anni!
“Non puoi banalizzare così una situazione complessa riguardo una faccenda di cui non sei un esperto: dove metti lo spread, il Gold Standard, i titoli di Stato, i mercati finanziari, la bilancia import-export, la Cina, il piano Marshall, il made in Italy e Wall Street e la globalizzazione?”.
Mi sembra di sentirvi.
Non ho voglia, vi dico solo una cosa: in una notte senza luna un campo pieno di vacche nere è uguale in tutto a un campo su cui non c’è nessuna vacca. Anzi due: i dieci anni di vacanze di Ulisse per il Mediterraneo, raccontati da i greci che chiamiamo Omero dentro la prima Baedeker della Storia, ce li hanno venduti talmente bene come una roba più grande di quella che è che ancora oggi, quando la compagna low-cost vi tratta come bestiame oppure la partenza intelligente vi blocca in autostrada a Imola per 7 ore, cos’è che dite una volta arrivati? È stata un’Odissea?
Il debito pubblico deve essere qualcos’altro, con un’altra funzione. Il rapporto PIL – debito pubblico, reiterato ogni anno, e ogni anno ostentato come l’indicatore più importante, la stella polare per tutta la nostra economia…
E se invece fosse un altro aspetto della narrazione di cui fanno già parte denaro e lavoro, quella narrazione che serve a far accettare uno stato delle cose e una visione sul mondo e sul modo di vivere. A istruirci su come DOBBIAMO vivere, ORDINARCELO, senza farci capire che siamo manovrati. Un insieme di obiettivi, mete, desideri e convenzioni che DOBBIAMO pensare sia quello più favorevole per noi, e soprattutto CREATO da noi stessi per ottenere il meglio per noi. Il debito pubblico è un MITO, né più né meno. E sta lì perché i potenti se ne servono per nascondere agli schiavi la schiavitù.
Certo che questo discorso da bar ne ha fatta di strada partendo dalla Gazzetta sul freezer dei gelati…
QUANDO AL BAR ANDAVO VERAMENTE
Quando al bar andavo veramente erano gli anni Novanta, e nel mio barettino di elezione c’era ancora un flipper. Di quelli che ora sono roba per collezionisti. Così mentre scrivo questo post mi sono ritrovato anche a guardare il vecchio flipper e, come un campanile di Proust, l’ho utilizzato in un’analogia.
Il sistema economico italiano è un po’ come un flipper, con un gettone datoci dal barista acquistiamo tre palline di acciaio che sono come il denaro e lo immettiamo in gioco, una pallina alla volta. La partita inizia e cerchiamo di fare più punti possibili con ogni pallina, facendola rimbalzare sui respingenti, colpendo i bersagli e attivando i bonus. E il nostro punteggio, come il PIL, aumenta sul segnapunti. Le insidie sono sempre quelle: il buco centrale tra le pinne, la bancarotta, e le infide corsie laterali di tasse e spese. A volte attiviamo il multiball e improvvisamente, per qualche secondo, abbiamo troppe palline da gestire ma bonus e punteggi aumentati esponenzialmente. Cerchiamo di tenere viva la partita il più possibile, a volte cerchiamo di barare ma il TILT finisce per castigarci. A volte troviamo una pallina già nel tunnel di lancio e ci vengono regalati un po’ di punti gratis. Ma non bastano mai, il record di questo tizio che si firma Debito Pubblico rimane imbattibile, sempre lì, anno dopo anno, partita dopo partita. Quanti soldi ho lasciato in quel flipper, in fondo solo per qualche minuto di intrattenimento. E penso al barista del bar, quando a serrande chiuse svuotava la gettoniera e mieteva l’unico guadagno reale dalle partite miei, dei miei amici e degli altri avventori.
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